2012
con un testo di giovanni tesio
Il Fondaco - Bra CN
ARCANI DELLA MEMORIA E DEL SOGNO
Maschere funebri o maschere oniriche? La voce di Amleto non è forse: “Morire, dormire, forse sognare”?
Se l’interpretazione ha dei limiti, il dilemma è compatibile con l’ambiguità che genera. Così possiamo pensare al sonno come a un simulacro di morte e al sogno come alla memoria del rimosso, al luogo di ogni contraddizione, al deposito di ogni ossimoro, alla radice di ogni pulsione (arca e sorgiva di ogni storia e di ogni figura).
Nel mondo di Alessia Clema la maschera fissa l’esistenza in una forma che l’ossifica e cristallizza, ma nel comune destino che lega le trentasette teste della sua scena, ogni maschera trattiene un’individualità, una storia (o persino la rinuncia ad averne una): se è vero che nella superficie sta la profondità, e che le dormienti maschere, vivendo dentro i loro sogni – in ragione anche del materiale in cui la “fissazione” avviene – testimoniano di altrettante vite, della cui traccia l’artista va in cerca. Adottando un verso di Maria Luisa Spaziani, si potrebbe dire che Alessia “sciorina i suoi tesori a portata di memoria”.
Ecco dunque che mentre il gesso opacizza, la resina (epossidica) fa trasparire, creando una permeabilità, in cui trovano dimora gli oggetti-emblemi – appunto – della memoria (la memoria come principio di conoscenza) e del cuore (il cuore come esercizio di passione): anch’essi silenziosi ma abitati da una specie di simbolico bric-à-brac (un piccolo atto di museificazione o di imbalsamazione, che tuttavia genera un commovente e a volte stridulo concerto di allusioni).
Ogni tentativo di cattura è illusorio, si sa, ma è anche istruttivo, e in un certo senso necessario, poiché l’arte non è che questo: cogliere il midollo della vita, pronunciare l’inesprimibile, accoglierne i sottintesi. Dirò troppo se sottolineo che la spinta non viene solo dalla ferita, ma da quella ferita che chiamiamo nostalgia?
A me sembra che nell’installazione di Alessia accada un po’ ciò che accade con il mondo delle parole. Come la parola che blocca la cosa, ma che poi trova nella sua sintassi e nel suo ritmo una sorta di danza, qui la danza procede da quell’andare dall’alto al basso e dal basso all’alto: una danza muta (ma non macabra), un silenzio musicante (o una musica distante) che viene dai volti strappati alla loro faccia e disposti lì – in bilico – ad abitare la soglia: chiusi gli occhi come un coperchio, sigillate le labbra come un sipario, ma poi un’aria ironica, che esprime le ridenti (e magari anche irridenti) ragioni del segreto.
Tra i tanti oggetti rituali (piccole note e spartiti musicali, fiori ed erbe, orologi e fotografie, pifferi e gingilli nautici, pierrots lunaires e fiori, congegni a molla e dischetti telematici, matite e chiodi) l’oggetto forse più sintomatico è un motto: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”. Dal De contemptu mundi di Bernardo Cluniacense a Umberto Eco. Che sia Roma o che sia rosa, tutto finisce nella nudità del nome, così come ogni volto confluisce nella trasparenza di una maschera che ne rivela l’unica e ultima sostanza (un ubi sunt voltato in un ubi sumus).
Dopodiché il resto non è che una cornice: un’intonata cornice che sta lì come un’autobiografia per frammenti: mai una figura intera ma le linee ogni volta spezzate e intrise di malinconia. Nel gioco del bianco e del nero qualche colore tenue che rompe una fissità d’ambra. Per dire la vita fossile che viviamo, la patria che ci attende, la cattura del fuggente che – sempre – spetta all’arte di tentare.
Giovanni Tesio