2019

UNTITLED

a cura di IDA ISOARDI E IVANA MULATERO

Palazzo Samone – CUNEO

 Trans-figurazioni Tendono alla chiarità le cose oscure,/ si esauriscono i corpi in un fluire/ di tinte: queste in musiche. Svanire/ è dunque la ventura delle venture. Portami tu la pianta che conduce/ dove sorgono bionde trasparenze/ e vapora la vita quale essenza;/ portami il girasole impazzito di luce. (Eugenio Montale) In apparenza, una freddezza raggiunta tramite solidificazioni materiche imprime di sé la pittura, e altro, di Alessia Clema. Ma le sue composizioni sollecitano immediatamente sensi diversi, risvegliati da una raffinatezza segnica non formale ma immaginifica. Quest'ultima pare fluire in un inquietante universo del silenzio dove brume e ombre, messaggere di un'estrema consumazione del paesaggio, si collocano tra fiaba e antimondo. Materia e colore trovano nell'artista un'esaltazione insolita, non mai affidata all'effetto, allusiva piuttosto allo svanire di ogni cosa. Eppure vi si scorgono punti luminosi tra rami spogli e oscurità struggenti; qui lo smarrimento romantico di fronte a un'immensità non dominabile dall'uomo ha la meglio su qualunque istanza oggettiva o estetizzante. I versi di Montale sembrano esprimere questa medesima nostalgia di luce, un angosciante senso di dissolvenza, un anelito di rinascita che stenta a manifestarsi. Alessia fonda paradossalmente la propria poetica sulla certezza di un “disordine” del tutto sottinteso nell'immagine da lei creata ma indicato quale condizione ineluttabile della vita e affida allo sguardo, suo e altrui, il compito di spingersi in un “oltre” che prescinda dal semplice atto del vedere. Jean Starobinski afferma in relazione alla potenza del guardare: “...Nello spazio dilatato, percorso dallo sguardo, l'opera è certamente un oggetto privilegiato, ma non è il solo oggetto che si impone alla vista. L'opera [...] non ha senso se non in rapporto all'insieme del suo contesto, [ma] il contesto è così vasto e le relazioni così numerose, che lo sguardo è colto da una segreta disperazione perché non riuscirà mai a mettere insieme tutti gli elementi di questa totalità che gli si annuncia”. 1 È questa, in fondo, la condizione di ogni opera d'arte: quella ineliminabile zona d'ombra che deve sussistere e resistere alla decifrazione dell'autore stesso e di chi osserva. Se nella pittura dell'artista non si avverte presenza umana, questa si rivela nelle “maschere”, soggetti in lei presenti e prediletti da tempo ma sempre vivi e mutevoli come stimoli psicologici. I pochi esempi esposti in rassegna risultano particolarmente pregnanti in relazione a contenuti comunque sottesi anche alle opere pittoriche. L'uso di resine sintetiche determina quella singolare trasfigurazione della materia che va al di là delle suggestioni prodotte dalla pittura e pone come interlocutori privilegiati l'ignoto, l'enigma, l'indeterminato. Si verifica una separazione, un misterioso diaframma tra sé e una dimensione sconosciuta. Le maschere di Alessia Clema non si possono considerare calchi o memorie di volti; esse si danno piuttosto come figure cave, contenitrici di materia e frammenti disparati, metafora e metonimia di un “disordine” che contrasta con la cristallina purezza della resina in cui sono state foggiate. Sempre il caos fa qui da contrappunto alla limpida materia, a volte la invade completamente sino ad annullarla vestendola di tenebra. È forse possibile leggere l'intera opera di Alessia come un percorso magmatico, un viaggio tra catastrofe, mistero e luce che si snoda, nonostante l'eleganza del segno, in modo tutt'altro che rassicurante per l'uomo. Piace pensare che tutto ciò non esprima che un forte desiderio di palingenesi, una grande intuizione di vita. 1 Jean Starobinski, L'occhio vivente, Torino, 1975, p. 19 Ida Isoardi

Lo sguardo di Icaro

a cura di CARLA BIANCO

Palazzo Samone – CUNEO

 

DAL CATALOGO DELLA MOSTRA

 

“In apparenza, una freddezza raggiunta tramite solidificazioni materiche,… Ma le composizioni sollecitano immediatamente sensi diversi, risvegliati da una raffinatezza segnica non formale ma immaginifica. Quest'ultima pare fluire in un inquietante universo del silenzio dove brume e ombre, messaggere di un'estrema consumazione del paesaggio, si collocano tra fiaba e antimondo.

Materia e colore trovano un'esaltazione insolita, non mai affidata all'effetto, allusiva piuttosto allo svanire di ogni cosa. Eppure vi si scorgono punti luminosi tra rami spogli e oscurità struggenti; qui lo smarrimento romantico di fronte a un'immensità non dominabile dall'uomo ha la meglio su qualunque istanza oggettiva o estetizzante….

È forse possibile leggere l'intera opera come un percorso magmatico, un viaggio tra catastrofe, mistero e luce che si snoda, nonostante l'eleganza del segno, in modo tutt'altro che rassicurante per l'uomo.

Piace pensare che tutto ciò non esprima che un forte desiderio di palingenesi, una grande intuizione di vita.”

 

Carla Bianco

ALESSIA CLEMA

Via Bodoni, 36 Saluzzo CN Italia

+39 338-2465341

©Alessia Clema

 Trans-figurazioni Tendono alla chiarità le cose oscure,/ si esauriscono i corpi in un fluire/ di tinte: queste in musiche. Svanire/ è dunque la ventura delle venture. Portami tu la pianta che conduce/ dove sorgono bionde trasparenze/ e vapora la vita quale essenza;/ portami il girasole impazzito di luce. (Eugenio Montale) In apparenza, una freddezza raggiunta tramite solidificazioni materiche imprime di sé la pittura, e altro, di Alessia Clema. Ma le sue composizioni sollecitano immediatamente sensi diversi, risvegliati da una raffinatezza segnica non formale ma immaginifica. Quest'ultima pare fluire in un inquietante universo del silenzio dove brume e ombre, messaggere di un'estrema consumazione del paesaggio, si collocano tra fiaba e antimondo. Materia e colore trovano nell'artista un'esaltazione insolita, non mai affidata all'effetto, allusiva piuttosto allo svanire di ogni cosa. Eppure vi si scorgono punti luminosi tra rami spogli e oscurità struggenti; qui lo smarrimento romantico di fronte a un'immensità non dominabile dall'uomo ha la meglio su qualunque istanza oggettiva o estetizzante. I versi di Montale sembrano esprimere questa medesima nostalgia di luce, un angosciante senso di dissolvenza, un anelito di rinascita che stenta a manifestarsi. Alessia fonda paradossalmente la propria poetica sulla certezza di un “disordine” del tutto sottinteso nell'immagine da lei creata ma indicato quale condizione ineluttabile della vita e affida allo sguardo, suo e altrui, il compito di spingersi in un “oltre” che prescinda dal semplice atto del vedere. Jean Starobinski afferma in relazione alla potenza del guardare: “...Nello spazio dilatato, percorso dallo sguardo, l'opera è certamente un oggetto privilegiato, ma non è il solo oggetto che si impone alla vista. L'opera [...] non ha senso se non in rapporto all'insieme del suo contesto, [ma] il contesto è così vasto e le relazioni così numerose, che lo sguardo è colto da una segreta disperazione perché non riuscirà mai a mettere insieme tutti gli elementi di questa totalità che gli si annuncia”. 1 È questa, in fondo, la condizione di ogni opera d'arte: quella ineliminabile zona d'ombra che deve sussistere e resistere alla decifrazione dell'autore stesso e di chi osserva. Se nella pittura dell'artista non si avverte presenza umana, questa si rivela nelle “maschere”, soggetti in lei presenti e prediletti da tempo ma sempre vivi e mutevoli come stimoli psicologici. I pochi esempi esposti in rassegna risultano particolarmente pregnanti in relazione a contenuti comunque sottesi anche alle opere pittoriche. L'uso di resine sintetiche determina quella singolare trasfigurazione della materia che va al di là delle suggestioni prodotte dalla pittura e pone come interlocutori privilegiati l'ignoto, l'enigma, l'indeterminato. Si verifica una separazione, un misterioso diaframma tra sé e una dimensione sconosciuta. Le maschere di Alessia Clema non si possono considerare calchi o memorie di volti; esse si danno piuttosto come figure cave, contenitrici di materia e frammenti disparati, metafora e metonimia di un “disordine” che contrasta con la cristallina purezza della resina in cui sono state foggiate. Sempre il caos fa qui da contrappunto alla limpida materia, a volte la invade completamente sino ad annullarla vestendola di tenebra. È forse possibile leggere l'intera opera di Alessia come un percorso magmatico, un viaggio tra catastrofe, mistero e luce che si snoda, nonostante l'eleganza del segno, in modo tutt'altro che rassicurante per l'uomo. Piace pensare che tutto ciò non esprima che un forte desiderio di palingenesi, una grande intuizione di vita. 1 Jean Starobinski, L'occhio vivente, Torino, 1975, p. 19 Ida Isoardi
ALESSIA CLEMA
 Trans-figurazioni Tendono alla chiarità le cose oscure,/ si esauriscono i corpi in un fluire/ di tinte: queste in musiche. Svanire/ è dunque la ventura delle venture. Portami tu la pianta che conduce/ dove sorgono bionde trasparenze/ e vapora la vita quale essenza;/ portami il girasole impazzito di luce. (Eugenio Montale) In apparenza, una freddezza raggiunta tramite solidificazioni materiche imprime di sé la pittura, e altro, di Alessia Clema. Ma le sue composizioni sollecitano immediatamente sensi diversi, risvegliati da una raffinatezza segnica non formale ma immaginifica. Quest'ultima pare fluire in un inquietante universo del silenzio dove brume e ombre, messaggere di un'estrema consumazione del paesaggio, si collocano tra fiaba e antimondo. Materia e colore trovano nell'artista un'esaltazione insolita, non mai affidata all'effetto, allusiva piuttosto allo svanire di ogni cosa. Eppure vi si scorgono punti luminosi tra rami spogli e oscurità struggenti; qui lo smarrimento romantico di fronte a un'immensità non dominabile dall'uomo ha la meglio su qualunque istanza oggettiva o estetizzante. I versi di Montale sembrano esprimere questa medesima nostalgia di luce, un angosciante senso di dissolvenza, un anelito di rinascita che stenta a manifestarsi. Alessia fonda paradossalmente la propria poetica sulla certezza di un “disordine” del tutto sottinteso nell'immagine da lei creata ma indicato quale condizione ineluttabile della vita e affida allo sguardo, suo e altrui, il compito di spingersi in un “oltre” che prescinda dal semplice atto del vedere. Jean Starobinski afferma in relazione alla potenza del guardare: “...Nello spazio dilatato, percorso dallo sguardo, l'opera è certamente un oggetto privilegiato, ma non è il solo oggetto che si impone alla vista. L'opera [...] non ha senso se non in rapporto all'insieme del suo contesto, [ma] il contesto è così vasto e le relazioni così numerose, che lo sguardo è colto da una segreta disperazione perché non riuscirà mai a mettere insieme tutti gli elementi di questa totalità che gli si annuncia”. 1 È questa, in fondo, la condizione di ogni opera d'arte: quella ineliminabile zona d'ombra che deve sussistere e resistere alla decifrazione dell'autore stesso e di chi osserva. Se nella pittura dell'artista non si avverte presenza umana, questa si rivela nelle “maschere”, soggetti in lei presenti e prediletti da tempo ma sempre vivi e mutevoli come stimoli psicologici. I pochi esempi esposti in rassegna risultano particolarmente pregnanti in relazione a contenuti comunque sottesi anche alle opere pittoriche. L'uso di resine sintetiche determina quella singolare trasfigurazione della materia che va al di là delle suggestioni prodotte dalla pittura e pone come interlocutori privilegiati l'ignoto, l'enigma, l'indeterminato. Si verifica una separazione, un misterioso diaframma tra sé e una dimensione sconosciuta. Le maschere di Alessia Clema non si possono considerare calchi o memorie di volti; esse si danno piuttosto come figure cave, contenitrici di materia e frammenti disparati, metafora e metonimia di un “disordine” che contrasta con la cristallina purezza della resina in cui sono state foggiate. Sempre il caos fa qui da contrappunto alla limpida materia, a volte la invade completamente sino ad annullarla vestendola di tenebra. È forse possibile leggere l'intera opera di Alessia come un percorso magmatico, un viaggio tra catastrofe, mistero e luce che si snoda, nonostante l'eleganza del segno, in modo tutt'altro che rassicurante per l'uomo. Piace pensare che tutto ciò non esprima che un forte desiderio di palingenesi, una grande intuizione di vita. 1 Jean Starobinski, L'occhio vivente, Torino, 1975, p. 19 Ida Isoardi
ALESSIA CLEMA
 Trans-figurazioni Tendono alla chiarità le cose oscure,/ si esauriscono i corpi in un fluire/ di tinte: queste in musiche. Svanire/ è dunque la ventura delle venture. Portami tu la pianta che conduce/ dove sorgono bionde trasparenze/ e vapora la vita quale essenza;/ portami il girasole impazzito di luce. (Eugenio Montale) In apparenza, una freddezza raggiunta tramite solidificazioni materiche imprime di sé la pittura, e altro, di Alessia Clema. Ma le sue composizioni sollecitano immediatamente sensi diversi, risvegliati da una raffinatezza segnica non formale ma immaginifica. Quest'ultima pare fluire in un inquietante universo del silenzio dove brume e ombre, messaggere di un'estrema consumazione del paesaggio, si collocano tra fiaba e antimondo. Materia e colore trovano nell'artista un'esaltazione insolita, non mai affidata all'effetto, allusiva piuttosto allo svanire di ogni cosa. Eppure vi si scorgono punti luminosi tra rami spogli e oscurità struggenti; qui lo smarrimento romantico di fronte a un'immensità non dominabile dall'uomo ha la meglio su qualunque istanza oggettiva o estetizzante. I versi di Montale sembrano esprimere questa medesima nostalgia di luce, un angosciante senso di dissolvenza, un anelito di rinascita che stenta a manifestarsi. Alessia fonda paradossalmente la propria poetica sulla certezza di un “disordine” del tutto sottinteso nell'immagine da lei creata ma indicato quale condizione ineluttabile della vita e affida allo sguardo, suo e altrui, il compito di spingersi in un “oltre” che prescinda dal semplice atto del vedere. Jean Starobinski afferma in relazione alla potenza del guardare: “...Nello spazio dilatato, percorso dallo sguardo, l'opera è certamente un oggetto privilegiato, ma non è il solo oggetto che si impone alla vista. L'opera [...] non ha senso se non in rapporto all'insieme del suo contesto, [ma] il contesto è così vasto e le relazioni così numerose, che lo sguardo è colto da una segreta disperazione perché non riuscirà mai a mettere insieme tutti gli elementi di questa totalità che gli si annuncia”. 1 È questa, in fondo, la condizione di ogni opera d'arte: quella ineliminabile zona d'ombra che deve sussistere e resistere alla decifrazione dell'autore stesso e di chi osserva. Se nella pittura dell'artista non si avverte presenza umana, questa si rivela nelle “maschere”, soggetti in lei presenti e prediletti da tempo ma sempre vivi e mutevoli come stimoli psicologici. I pochi esempi esposti in rassegna risultano particolarmente pregnanti in relazione a contenuti comunque sottesi anche alle opere pittoriche. L'uso di resine sintetiche determina quella singolare trasfigurazione della materia che va al di là delle suggestioni prodotte dalla pittura e pone come interlocutori privilegiati l'ignoto, l'enigma, l'indeterminato. Si verifica una separazione, un misterioso diaframma tra sé e una dimensione sconosciuta. Le maschere di Alessia Clema non si possono considerare calchi o memorie di volti; esse si danno piuttosto come figure cave, contenitrici di materia e frammenti disparati, metafora e metonimia di un “disordine” che contrasta con la cristallina purezza della resina in cui sono state foggiate. Sempre il caos fa qui da contrappunto alla limpida materia, a volte la invade completamente sino ad annullarla vestendola di tenebra. È forse possibile leggere l'intera opera di Alessia come un percorso magmatico, un viaggio tra catastrofe, mistero e luce che si snoda, nonostante l'eleganza del segno, in modo tutt'altro che rassicurante per l'uomo. Piace pensare che tutto ciò non esprima che un forte desiderio di palingenesi, una grande intuizione di vita. 1 Jean Starobinski, L'occhio vivente, Torino, 1975, p. 19 Ida Isoardi
ALESSIA CLEMA
ALESSIA CLEMA
 Trans-figurazioni Tendono alla chiarità le cose oscure,/ si esauriscono i corpi in un fluire/ di tinte: queste in musiche. Svanire/ è dunque la ventura delle venture. Portami tu la pianta che conduce/ dove sorgono bionde trasparenze/ e vapora la vita quale essenza;/ portami il girasole impazzito di luce. (Eugenio Montale) In apparenza, una freddezza raggiunta tramite solidificazioni materiche imprime di sé la pittura, e altro, di Alessia Clema. Ma le sue composizioni sollecitano immediatamente sensi diversi, risvegliati da una raffinatezza segnica non formale ma immaginifica. Quest'ultima pare fluire in un inquietante universo del silenzio dove brume e ombre, messaggere di un'estrema consumazione del paesaggio, si collocano tra fiaba e antimondo. Materia e colore trovano nell'artista un'esaltazione insolita, non mai affidata all'effetto, allusiva piuttosto allo svanire di ogni cosa. Eppure vi si scorgono punti luminosi tra rami spogli e oscurità struggenti; qui lo smarrimento romantico di fronte a un'immensità non dominabile dall'uomo ha la meglio su qualunque istanza oggettiva o estetizzante. I versi di Montale sembrano esprimere questa medesima nostalgia di luce, un angosciante senso di dissolvenza, un anelito di rinascita che stenta a manifestarsi. Alessia fonda paradossalmente la propria poetica sulla certezza di un “disordine” del tutto sottinteso nell'immagine da lei creata ma indicato quale condizione ineluttabile della vita e affida allo sguardo, suo e altrui, il compito di spingersi in un “oltre” che prescinda dal semplice atto del vedere. Jean Starobinski afferma in relazione alla potenza del guardare: “...Nello spazio dilatato, percorso dallo sguardo, l'opera è certamente un oggetto privilegiato, ma non è il solo oggetto che si impone alla vista. L'opera [...] non ha senso se non in rapporto all'insieme del suo contesto, [ma] il contesto è così vasto e le relazioni così numerose, che lo sguardo è colto da una segreta disperazione perché non riuscirà mai a mettere insieme tutti gli elementi di questa totalità che gli si annuncia”. 1 È questa, in fondo, la condizione di ogni opera d'arte: quella ineliminabile zona d'ombra che deve sussistere e resistere alla decifrazione dell'autore stesso e di chi osserva. Se nella pittura dell'artista non si avverte presenza umana, questa si rivela nelle “maschere”, soggetti in lei presenti e prediletti da tempo ma sempre vivi e mutevoli come stimoli psicologici. I pochi esempi esposti in rassegna risultano particolarmente pregnanti in relazione a contenuti comunque sottesi anche alle opere pittoriche. L'uso di resine sintetiche determina quella singolare trasfigurazione della materia che va al di là delle suggestioni prodotte dalla pittura e pone come interlocutori privilegiati l'ignoto, l'enigma, l'indeterminato. Si verifica una separazione, un misterioso diaframma tra sé e una dimensione sconosciuta. Le maschere di Alessia Clema non si possono considerare calchi o memorie di volti; esse si danno piuttosto come figure cave, contenitrici di materia e frammenti disparati, metafora e metonimia di un “disordine” che contrasta con la cristallina purezza della resina in cui sono state foggiate. Sempre il caos fa qui da contrappunto alla limpida materia, a volte la invade completamente sino ad annullarla vestendola di tenebra. È forse possibile leggere l'intera opera di Alessia come un percorso magmatico, un viaggio tra catastrofe, mistero e luce che si snoda, nonostante l'eleganza del segno, in modo tutt'altro che rassicurante per l'uomo. Piace pensare che tutto ciò non esprima che un forte desiderio di palingenesi, una grande intuizione di vita. 1 Jean Starobinski, L'occhio vivente, Torino, 1975, p. 19 Ida Isoardi
ALESSIA CLEMA
 Trans-figurazioni Tendono alla chiarità le cose oscure,/ si esauriscono i corpi in un fluire/ di tinte: queste in musiche. Svanire/ è dunque la ventura delle venture. Portami tu la pianta che conduce/ dove sorgono bionde trasparenze/ e vapora la vita quale essenza;/ portami il girasole impazzito di luce. (Eugenio Montale) In apparenza, una freddezza raggiunta tramite solidificazioni materiche imprime di sé la pittura, e altro, di Alessia Clema. Ma le sue composizioni sollecitano immediatamente sensi diversi, risvegliati da una raffinatezza segnica non formale ma immaginifica. Quest'ultima pare fluire in un inquietante universo del silenzio dove brume e ombre, messaggere di un'estrema consumazione del paesaggio, si collocano tra fiaba e antimondo. Materia e colore trovano nell'artista un'esaltazione insolita, non mai affidata all'effetto, allusiva piuttosto allo svanire di ogni cosa. Eppure vi si scorgono punti luminosi tra rami spogli e oscurità struggenti; qui lo smarrimento romantico di fronte a un'immensità non dominabile dall'uomo ha la meglio su qualunque istanza oggettiva o estetizzante. I versi di Montale sembrano esprimere questa medesima nostalgia di luce, un angosciante senso di dissolvenza, un anelito di rinascita che stenta a manifestarsi. Alessia fonda paradossalmente la propria poetica sulla certezza di un “disordine” del tutto sottinteso nell'immagine da lei creata ma indicato quale condizione ineluttabile della vita e affida allo sguardo, suo e altrui, il compito di spingersi in un “oltre” che prescinda dal semplice atto del vedere. Jean Starobinski afferma in relazione alla potenza del guardare: “...Nello spazio dilatato, percorso dallo sguardo, l'opera è certamente un oggetto privilegiato, ma non è il solo oggetto che si impone alla vista. L'opera [...] non ha senso se non in rapporto all'insieme del suo contesto, [ma] il contesto è così vasto e le relazioni così numerose, che lo sguardo è colto da una segreta disperazione perché non riuscirà mai a mettere insieme tutti gli elementi di questa totalità che gli si annuncia”. 1 È questa, in fondo, la condizione di ogni opera d'arte: quella ineliminabile zona d'ombra che deve sussistere e resistere alla decifrazione dell'autore stesso e di chi osserva. Se nella pittura dell'artista non si avverte presenza umana, questa si rivela nelle “maschere”, soggetti in lei presenti e prediletti da tempo ma sempre vivi e mutevoli come stimoli psicologici. I pochi esempi esposti in rassegna risultano particolarmente pregnanti in relazione a contenuti comunque sottesi anche alle opere pittoriche. L'uso di resine sintetiche determina quella singolare trasfigurazione della materia che va al di là delle suggestioni prodotte dalla pittura e pone come interlocutori privilegiati l'ignoto, l'enigma, l'indeterminato. Si verifica una separazione, un misterioso diaframma tra sé e una dimensione sconosciuta. Le maschere di Alessia Clema non si possono considerare calchi o memorie di volti; esse si danno piuttosto come figure cave, contenitrici di materia e frammenti disparati, metafora e metonimia di un “disordine” che contrasta con la cristallina purezza della resina in cui sono state foggiate. Sempre il caos fa qui da contrappunto alla limpida materia, a volte la invade completamente sino ad annullarla vestendola di tenebra. È forse possibile leggere l'intera opera di Alessia come un percorso magmatico, un viaggio tra catastrofe, mistero e luce che si snoda, nonostante l'eleganza del segno, in modo tutt'altro che rassicurante per l'uomo. Piace pensare che tutto ciò non esprima che un forte desiderio di palingenesi, una grande intuizione di vita. 1 Jean Starobinski, L'occhio vivente, Torino, 1975, p. 19 Ida Isoardi
ALESSIA CLEMA